TANCREDI PARMEGGIANI FECE RIVIVERE, NEGLI ANNI CINQUANTA DEL NOVECENTO, IL MITO OTTOCENTESCO DELL’ARTISTA MALEDETTO.

Bello e dannato, genio sregolato e dal pessimo carattere, perfido con le donne, inquieto e tormentato nella sua arte, morto giovanissimo all’apice della sua carriera. Questa è la storia, tutta italiana, di Tancredi Parmeggiani.

 

TANCREDI, LA FORMAZIONE

 

Tancredi Parmeggiani nacque a Feltre, in provincia di Belluno, il 25 settembre 1927, abbandonò ben presto presto gli studi classici per frequentare il Liceo Artistico a Venezia e, in seguito, l’Accademia di Belle Arti.

Nella città lagunare strinse rapporti d’amicizia con Emilio Vedova e con la grande gallerista Peggy Guggenheim che lo prese sotto la sua ala protettrice. La collezionista americana fu talmente colpita dalla pittura e dall’aurea bohémien di questo giovane, da arrivare a concedergli una stanza della sua dimora come studio.

 

Tancredi Parmeggiani, Venezia, 1955
Tancredi Parmeggiani, Venezia, 1955

 

Tancredi fu per alcuni anni pittore in residenza presso la mia collezione, qui egli ebbe modo di conoscere Pollock e i suoi quadri che si trovavano nella mia collezione. […] Tancredi ebbe modo di svilupparsi per scatenare la rivolta naturale che era in lui e che appare così evidente in tutta la sua opera.” (Peggy Guggenheim)

 

TANCREDI, VENEZIA E PEGGY GUGGENHEIM

 

Peggy Guggenheim introdusse il giovane Tancredi alle tendenze più all’avanguardia dell’arte contemporanea, fornendogli uno stipendio con il quale sostenersi. In questi anni produsse le sue opere più felici, anche se ciò non bastò a rendergli anche la necessaria stabilità emotiva: la sua vita personale fu sempre un alternarsi di alti e bassi, di momenti sereni e di momenti tempestosi, preludio delle crisi mentali che caratterizzeranno l’ultima parte della sua esistenza.
Venezia fu anche il luogo privilegiato della scoperta della luce, di quella luce che nella sua opera divenne colore, un colore fresco e lirico che sarà la sua autentica cifra distintiva.

 

Tancredi Parmeggiani, Ricordo di Raoul, 1953
Tancredi Parmeggiani, Ricordo di Raoul, 1953

 

Ragazzo di provincia, Tancredi non fu per nulla provinciale nell’elaborare una nuova astrazione dove l’aspetto informale dialogava con quello spaziale. Una ricerca del tutto originale e personale che lo poneva al di fuori di ogni scuola, di ogni movimento e di qualsivoglia etichetta.

Tancredi ha cercato una sua strada che al principio lascia molto perplessi, ma poi, e direi in modo strano, convince come pochi altri giovani della sua età.” (Federico Castellani)

 

TANCREDI, LO STILE

 

A differenza di molti artisti suoi contemporanei, Tancredi non rinnegò la pittura ma cercò di rinnovarla dall’interno, esplorandone le possibili evoluzioni naturali: un’estetica essenzialmente poetica, a tratti fantastica e a tratti ancorata ad una memoria nostalgica.
Il suo vocabolario veniva dai prati infiorati della sua terra natia, dalle Venezie dove il colore si traduce in trasparenze diafane e incorporee, da una sintassi compositiva fatta di una trama indistricabile di segni: frammenti naturali e frammenti onirici in grado di condurci verso nuovi ed inusitati mondi.

 

Tancredi Parmeggiani, I papaveri, 1953
Tancredi Parmeggiani, I papaveri, 1953

 

Credo in un futuro fatto di equilibrio, in un artista che sia un uomo puro, capace di tutti i tipi di emozioni. […] Per fare della pittura bisogna amare la natura: credo che un quadro debba essere altrettanto natura quanto lo è una foglia. Una foglia assomiglia in parte a un albero, un albero assomiglia al cielo. C’è un solo modo di capire la natura, guardarla più che sentirla; la natura si può dividere in forme che si possono moltiplicare all’infinito; scindendola si scopre la geometria. Anche la grafia è geometria, qualunque grafia contiene elementi geometrici come qualunque elemento geometrico.“ (Tancredi Parmeggiani)

 

TANCREDI, GLI ANNI SESSANTA

 

Intorno agli anni Sessanta, apparvero i primi segnali di un mutamento esistenziale ed artistico; le Facezie i Matti i Fiori, prove di straordinaria felicità, ma anche un ardimentoso allontanamento dal tradizionale astrattismo italiano del dopoguerra: una sorta di narrazione tagliente del mondo, tradotta con una dissacrante libertà linguistica e una straripante vena inventiva.

 

Tancredi Parmeggiani, Senza Titolo, dal ciclo dei Diari Paesani, 1961
Tancredi Parmeggiani, Senza Titolo, dal ciclo dei “Diari Paesani”, 1961

 

Io non so scrivere, forse riuscirò a dipingere quello che sento” – diceva – e così, guidato dal tocco del pennello, gridava il proprio dolore attraverso le forme, lo spazio, i colori, dando vita ad una sorta una di diario sentimentale.

Le crisi nervose si fecero sempre più drammatiche e violente come drammatici e fortemente espressivi si fecero le sue ultime tele, fino al tragico epilogo del 1964. Il 27 settembre di quell’anno, lo stesso anno in cui espose alla Biennale di Venezia, Tancredi Parmeggiani, all’età di trentasette anni, si consegnò alle acque del Tevere ponendo così fine alla sua inquieta vita e alla sua nobile arte.

Bisogna andare alla natura, prendere quello che si ama, e restituirlo sulla tela attraverso l’istinto e la fantasia; quello che nascerà sarà naturale e fantastico allo stesso tempo. Questo è quello che hanno sempre fatto i pittori. La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba.” (Tancredi Parmeggiani)