ALBERTO MARTINI FU UN GRANDE INTERPRETE DELL’ARTE GRAFICA DEL NOVECENTO. OPITERGINO DI NASCITA, MA EUROPEO D’ADOZIONE, FU COSÌ POCO COMPRESO DAI SUOI CONTEMPORANEI DA ESSERE RELEGATO NELLA MEMORIA DI POCHI E RAFFINATI CULTORI D’ARTE.
“I miei nemici (molto piccoli ma nemici) che congiurano continuamente contro di me, capitanati dalla signora Sarfatti, ovvero i soci della signora Sarfatti, ovvero la molto arricchita signora Sarfatti, malgrado la sua e la loro mentalità assolutamente insufficiente per giudicare l’opera mia, hanno giurato di cancellarmi non solo dai pittori italiani… ma hanno giurato anche di cancellarmi come pittore nella memoria degli italiani, impedendomi di presenziare nelle esposizioni e nel mercato italiano… So bene che la mia pittura originale può dar noia agli scarabocchini ed ai criticonzoli miopi, invidiosi dell’intuito di Pica…” (Alberto Martini)
ALBERTO MARTINI, LE ORIGINI
Alberto Giacomo Spiridione Martini nacque ad Oderzo il 24 novembre del 1876 da Maria dei conti Spineda de Cattaneis, appartenente ad una nobile famiglia trevigiana, dalla quale ereditò un certo gusto dandy ed una cultura raffinata, e da Giorgio Martini, pittore naturalista ed insegnante, che lo guidò nei suoi primi passi nell’arte. Fu nell’ambiente familiare che Martini maturò la sua formazione, possiamo tranquillamente definirlo una autodidatta, caratteristica questa che lo accomunò a molti altri artisti a cavallo del secolo.
Fin dai suoi esordi dimostrò una spiccata predilezione per il disegno: la sua vocazione come pittore fu spesso mortificata e mal considerata, tant’è che si imporrà nella scena italiana ed internazionale soprattutto come maestro del bianco e nero. Illustrazioni per testi letterari, ex-libris, affiches pubblicitarie, copertine per riviste, biglietti da visita, furono le opere dove raggiunse indiscutibili livelli di eccellenza esecutiva.

Martini seppe adattare perfettamente il mezzo grafico al messaggio che desiderava trasmettere, senza seguire delle scuole o delle correnti precise. Probabilmente fu anche questa difficoltà a catalogarlo in modo univoco ad oscurarne la fama, rendendolo di difficile comprensione ai più.
“Per imparare il disegno a penna, strumento difficile e acuto come il violino, è necessario lavorare di giorno e di notte per molti anni; passare notti intere al lavoro arrischiando la vita per poter rendere sensibili immaginazione e fantasia di uno stile originale, per fermare la vibrazione luminosa e l’espressione plastica più intensa…” (Alberto Martini)
ALBERTO MARTINI E VITTORIO PICA
La fortuna di Alberto Martini fu decretata dalla speciale attenzione che gli riservò Vittorio Pica, giornalista, collezionista, critico d’arte, nonché grande scopritore di talenti.
“Ciò di cui mi ricordo molto bene – scrisse Pica nel 1927 riferendosi al suo primo incontro con Alberto Martini, avvenuto nel 1898 a Torino in occasione dell’Esposizione generale italiana – è che fu proprio in tale occasione che ebbi la buona ventura di fare la conoscenza di lui come artista e come persona. L’uomo, poco più che ventenne mi riuscì di prim’acchito simpatico nella riservatezza signorile, seppure un po’ fredda, nell’eleganza sottile della persona, nel pallore del volto, in cui alla freschezza sensuale delle labbra rosse contrastava lo sguardo strano, fra acuto e astratto, fra disdegnoso e canzonatorio.”

Pica fu per Martini mentore e promotore, ne stimolò la creatività e lo mise in contatto con i circoli artistici più importanti del tempo. Il limite della sua influenza può essere ravvisato nel condizionamento che esercitò sul gusto di Martini, inducendolo, molto spesso, verso derive simboliste di stampo decadente e fortemente elitario.
In qualche modo Pica intrappolò Martini nel cliché dell’artista dandy ed aristocratico, frenando i suoi estri pittorici, troppo spesso mortificati e, quando espressi, mal considerati.
“Chi non ha comprensione, né fede vale niente in tutte le cose della vita, e in arte chi manca di comprensione, di chiaroveggenza (i molti), è una nullità, o, se vi piace, un cadavere che viaggia. L’arte non è fatta per i cadaveri” (Alberto Martini)
LE ILLUSTRAZIONI PER I RACCONTI DI EDGAR ALLAN POE
Nel corso della sua esistenza Martini si dedicò ad un’infinità di progetti, testimonianza della sua fervente creatività. In questo sostanzioso corpus martiniano, una menzione particolare va tributata alle illustrazioni realizzate per i “Racconti” di Edgar Allan Poe.
Tra il 1905 ed il 1909, egli lavorò assiduamente sul testo di Poe realizzando ben centotrentasei disegni che si guadagnarono notorietà europea. Esposte per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1909, le tavole di Martini richiamarono l’interesse della stampa internazionale, meritandosi importanti articoli nelle principali riviste specializzate inglesi, francesi e tedesche.
Già l’anno successivo, nel 1910, ottenne una personale a Bruxelles dove vennero presentati quasi integralmente i suoi disegni per Poe, un’anticipazione di quella che sarà l’esibizione più significativa del marzo 1914, presso la Galleria Goupil & Co di Londra.

Dopo la sua morte questa raccolta, come d’altronde il nome dell’artista, si perse nel dimenticatoio per essere riscoperta nel 1984, quando venne catalogata e studiata. I “Racconti” di Poe costituirono materia fertile per la fantasia dell’artista: racconti fantastici, in bilico tra l’orrido ed il sovrannaturale, perfettamente in linea con il suo immaginario onirico. Lo stile, duro e materiale, denso e dalla linea concreta, prende le distanze dai compiaciuti contorsionismi grafici di matrice liberty, per affondare nell’essenza descrittiva di Poe.
“L’immaginativa del giovine trevigiano – scrisse Pica dopo il 1908 – postasi in stretto contatto con quella del geniale letterato americano, mentre intensificava e raffinava le varie proprie doti, ha sagacemente saputo rinunciare a quel senso di voluttà, che pure esaltasi e trionfa in tanta parte dell’opera sua anteriore, ben comprendendo che esso sarebbe riuscito inopportuno per comprendere e fare poi comprendere agli altri l’essenza dell’idealismo, schivo di ogni più lontana ombra sensuale, di Poe.”
ALBERTO MARTINI, ANALISI CRITICA
Alberto Martini, nonostante la sua pregevole e vasta produzione, rimane ancora un artista occulto e periferico, continuando ad aggirarsi, come un’anima dannata, tra le zone inesplorate della storia dell’arte.
Sarà forse dovuto alla raffinatezza della sua opera, o a quell’estro visionario che lo resero poco appetibile sul suolo italico, più avvezzo ad un simbolismo pallido, dai contorni svenevoli e decadenti.
In un’epoca in cui trionfava la retorica di un Sartorio o l’esoterismo provinciale di un Segantini, il simbolismo decadente di Martini rimaneva un fenomeno appartato, elitario, lontano dai clamori di un riconoscimento popolare.
Elegante ed altero, bello ed aristocratico, Alberto Martini spese la sua esistenza tra le grandi capitali europee, frequentando gli ambienti all’avanguardia ed il bel mondo, ma rimanendo sempre e solo fedele a sé stesso: estraneo ai più, ignoto ai molti.
Egli non si curò mai troppo di difendere l’isolamento in cui venne relegata la sua opera: la sua vita fu volutamente avvolta in una nube di mistero, interamente votata ad inseguire i fantasmi della sua mente.
Affascinato da tutto ciò che si celava sotto la superficie del reale, Martini fu l’illustratore più intrigante delle opere di Poe, Verlaine, Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, grandi maestri della surrealtà; la sua materia era l’inchiostro, le ombre notturne il suo elemento naturale.

Martini si tenne per lungo tempo lontano dal colore, la luce che lo guidava era quella del suo mondo interiore, in bilico tra torbide realtà ed inusuali fantasie. L’anima eletta di Martini si dimostrò più affine alle impalpabili vibrazioni del disegno che alle roboanti sinfonie dell’arte pittorica.
Oscuro come la produzione che lo rese grande, Alberto Martini vaga ancora negli anfratti più reconditi dell’arte: il suo nome volutamente, o per ignoranza, mai pronunciato. Una sorte funesta per chi, come lui, seppe guardare oltre il suo tempo, anticipando i drammi violenti e brutali generati dal marasma dell’inconscio.
“La mia vita è un sogno ad occhi aperti. Il sonno è un sogno ad occhi chiusi falsato dall’incubo della realtà. Sarebbe strano che qualcuno negasse che la realtà è un intempestivo, brutale, mortificante susseguirsi di contrattempi, malintesi, intoppi, cupidigie e miserie, di combinazioni assurde, immorali, criminali, tragiche, stonate sempre e noiose, perchè tutti gli uomini sono vittime di tali imprevedute avventure e ho sempre trovato tanto brutta, incongruente, grottesca e crudele la realtà, e quasi sempre di una comicità così ridicola e banale o di una perversità così ripugnante, che la mia riconciliazione è problematica.” (Alberto Martini)
ALBERTO MARTINI, L’EREDITÀ
Alberto Martini si spense a Milano, all’Ospedale Fatebenefratelli, l’8 novembre 1954. Lasciò un testamento spirituale, auspicando la nascita di un museo dove custodire le memorie del surrealismo italiano.
“…La grande finestra del mio studio è aperta nella notte. In quel nero rettangolo passano i miei fantasmi e con loro amo conversare. Mi incitano ad essere forte, indomito, eroico, mi sussurrano segreti e misteri che forse ti dirò. Moltissimi non crederanno e me ne duole per loro, perchè chi non ha immaginazione vegeta in pantofole: vita comoda, ma non vita d’artista. Una notte senza stelle, in quel rettangolo nero mi vidi come in uno specchio. Mi vidi pallido, impassibile, la mia anima, pensai, che ora specchia il mio volto nell’infinito e un giorno specchiò chissà quali mie sembianze, perchè se l’anima è eterna non ha nè principio nè fine e noi non siamo ora che un suo differente episodio terreno. E questo pensiero rivelatore mi turbava. […] Mi voltai e vidi posata accanto alla mia mano una grande farfalla notturna che mi guardava battendo le ali. Anche tu, pensai, stai sognando e l’incantesimo dei tuoi immoti occhi di polvere mi vede un fantasma. Sì, notturna e bella visitatrice, sono un sognatore che crede nell’immortalità, o forse un fantasma del sogno eterno che chiamiamo vita.” (Alberto Martini)

Dopo la sua morte non apparvero contributi significativi sull’artista: troppo avanti per il suo tempo, ora si mostrava il retaggio di una cultura antica e fuori moda. Fu solo nel 1967, con la grande mostra antologica organizzata ad Oderzo, che cominciò uno studio critico ed accurato dell’opera del maestro. Questo evento stimolò anche la creazione di una Pinacoteca, sempre ad Oderzo, il cui atto di nascita fu sancito dalla donazione del suo Autoritratto del 1911, da parte della vedova Maria Petringa. Altri lasciti si aggiungeranno nel corso degli anni fino ad arrivare alla raccolta odierna che vanta circa settecento pezzi, oltre a significativi lasciti documentari.
“Solo i veri grandi artisti non invecchiano, perché sono capaci di rinnovarsi e inventare nuove forme, nuove colori, invenzioni genuine.” (Alberto Martini)
[…] Il fatto che a Martini non sia mai stata tributata la collocazione che gli spetterebbe nel panorama dell’arte italiana di inizio secolo è forse da imputare alla sua predilezione per i temi grotteschi e per le atmosfere lugubri (è purtroppo risaputa la mala reputazione che il fantastico ha scontato, e sconta, nel nostro paese). Non giovò nemmeno l’eclettismo della sua produzione, che rifuggeva da qualsiasi etichetta o facile categorizzazione: l’originalità, che giustamente egli riteneva un punto di forza, fu paradossalmente ciò che lo costrinse a rimanere “un artista periferico e occulto, continuando ad aggirarsi, come un’anima dannata, tra le zone inesplorate della storia dell’arte” (Barbara Meletto, Alberto Martini: il mago del disegno). […]