IL MITO DI ATALANTA HA ISPIRATO LA FANTASIA DI NUMEROSI ARTISTI, MA LA SUA TRASPOSIZIONE PIÙ CELEBRE É COSTITUITA DAL DIPINTO DI GUIDO RENI “ATALANTA ED IPPÒMENE”.

Avrai forse sentito parlare di una che vinceva nelle gare di corsa gli uomini più veloci. Non era una frottola, quella voce: li vinceva davvero. E non avresti saputo dire se fosse più da ammirarsi per merito dei piedi o per la bellezza del corpo.” (Publio Ovidio Nasone, “Metamorfosi”, X)

 

ATALANTA, IL MITO

 

Il mito greco di Atalanta, ripreso dal romano Ovidio ne le “Metamorfosi”, ha due versioni del tutto simili che differiscono solamente per i nomi di alcuni protagonisti e per l’ambientazione geografica.

Figlia di Iaso, re di Arcadia (o di Scheneo, re della Beozia, secondo la versione beota) e di Climene, Atalanta era famosa per la sua straordinaria abilità nella caccia, nella lotta e soprattutto nella corsa. Dal momento che il padre desiderava figli maschi per potersi garantire degli eredi, la fanciulla venne esposta, alla nascita, sulla collina Partenia presso Calidone. Ma la dea Artemide, impietositasi, decise di inviare un’orsa in soccorso alla bimba. L’orsa accudì Atalanta come una mamma fino al giorno in cui sopraggiunsero dei pastori che la presero con loro.

Allevata come una cacciatrice, si fece notare in diverse prove fisiche, tra cui la cattura di un enorme cinghiale che seminava panico e terrore tra la popolazione di Calidone. Tanto fu il clamore di questa impresa che perfino il padre si risolse a riconoscerla come figlia, invitandola, al contempo, a convolare a nozze. Una richiesta questa poco gradita ad Atalanta, alla quale un oracolo aveva consigliato di non prendere marito; alla fine promise al genitore che avrebbe sposato solamente l’uomo in grado di batterla in una gara di corsa.

 

Nicolas Colombel, Atalanta e Ippòmene, dettaglio, 1699
Nicolas Colombel, Atalanta e Ippòmene, dettaglio, 1699

 

Dopo i tentativi falliti di numerosi aspiranti, sopraggiunse Melanione (Ippòmene secondo il testo beota) che, ammaliato dalla bellezza di Atalanta, chiese aiuto alla dea Afrodite per riuscire a battere la giovane e garantirsi in questo modo la sua mano. La dea dell’amore affidò al ragazzo tre mele d’oro del Giardino delle Esperidi da lasciar cadere durante la gara.

E dunque, sebbene Atalanta fosse dotata della forza di un uomo, nell’animo rimaneva pur sempre una donna: ogni volta che vedeva luccicare un pomo a terra, ella si attardava per raccoglierlo. Con questo acuto stratagemma Ippòmene si garantì la vittoria e riuscì ad unirsi in matrimonio con Atalanta. Ma questo amore coniugale non era destinato a durare nel tempo. Un giorno i due profanarono un tempio dedicato a Cibele (secondo un’altra tradizione il tempio era dedicato a Zeus), compiendo un atto amoroso in pubblico. Per vendicarsi Afrodite li trasformò in leoni, animali che secondo la tradizione classica non potevano accoppiarsi fra di loro. Fu così che, nonostante il tranello, la funesta predizione dell’oracolo trovò il suo compimento.

 

 

ATALANTA, IL SIGNIFICATO DEL MITO

 

Il mito di Atalanta si presta a varie e molteplici interpretazioni. Prima di tutto ci insegna come sia impossibile fuggire al fato, anche per una persona che corre più veloce del vento. Esiste un destino predeterminato e nessuna impresa è in grado di modificarlo.

Ma altri e più attuali sono gli spunti che questa vicenda ci offre, in particolar modo legati alla figura di Atalanta e al suo essere un’atleta donna in un mondo dominato dagli uomini. Atalanta è una donna superiore agli uomini per forza e per coraggio e forse, proprio per questo motivo, viene punita dagli dèi. Ma ciò è accaduto perché non è concesso alle donne di gareggiare con gli uomini, o piuttosto perché è necessario rispettare le differenze di genere? Atalanta era la più brava e valorosa, per batterla Ippòmene dovette ricorrere ad un sotterfugio.

 

Peeter Gowy, Atalanta e Ippòmene, 1635
Peeter Gowy, Atalanta e Ippòmene, 1635

 

Le mele d’oro, oltre che immediato richiamo alla vanità muliebre, alludono altresì alle interferenze che distraggono la nostra mente dall’obiettivo finale e che condizionano l’esito della competizione. Stress, timore di sbagliare, eccessiva autocritica, sono tutte limitazioni che un bravo atleta deve riuscire a dominare. Il campione si distingue non solo per la sua preparazione fisica, ma soprattutto per la capacità di tenere sotto controllo gli ostacoli interni imposti dalla mente.

 

 

ATALANTA E IPPÒMENE, IL DIPINTO

 

A Napoli, nel Museo di Capodimonte, è custodito un meraviglioso dipinto di Guido Reni dal titolo “Atalanta ed Ippòmene”, databile tra il 1620 ed il 1625. L’opera, di cui esiste una versione precedente al Museo del Prado di Madrid, è un’esemplare rappresentazione del mito antico.

L’artista ha colto i due giovani impegnati nella competizione: un’immagine di grande finezza ed eleganza compositiva. A sinistra, china a cogliere i pomi d’oro, la leggiadra figura di Atalanta, cinta da un velo trasparente. Alla sua destra Ippòmene, dai delicati tratti efebici, si volge verso la fanciulla come a sincerarsi della bontà del trucco suggeritogli da Afrodite.

Sullo sfondo della scena, ambientata in un paesaggio notturno, si scorge, ai lati esterni dei personaggi, il pubblico che assiste alla sfida. Tutta la composizione si gioca tra l’interdipendenza dei corpi dei due giovani, due corpi candidi e sinuosi capaci di esprimere lo sforzo fisico della corsa, ma anche la nascita di un tenero sentimento d’amore. Gesti e posture raffinate, perfino struggenti, evocative di un attimo sospeso nella storia.

 

Guido Reni, Atalanta ed Ippòmene, 1620-1625
Guido Reni, Atalanta ed Ippòmene, 1620-1625

 

Allora il discendente di Nettuno si decise a lasciar cadere uno dei tre frutti. Si stupì, la vergine, e incantata dal pomo luccicante deviò e raccolse la sfera d’oro che rotolava. Ippòmene la sorpassa; dalle tribune uno scroscio di applausi. Lei recupera con corsa veloce il tempo perduto, e di nuovo si lascia il giovane alle spalle. Rimasta indietro un’altra volta al lancio del secondo pomo, un’altra volta lo insegue e lo supera. Ormai c’era da correre solo l’ultimo tratto.” (Publio Ovidio Nasone, “Metamorfosi”, Libro X)