AUBREY BEARDSLEY FU UN PRODIGIO NELL’ARTE DEL BIANCO E NERO. DEFINITO DA ROGER FRY IL “FRATE ANGELICO DEL SATANISMO”, DANDY SOFISTICATO E CULTORE DI UN ESTETISMO SMODATO, FU IL TEORICO DI UN’ARTE ARTIFICIOSAMENTE ESCLUSIVA E RICERCATA.
L’occhio miope dei bacchettoni benpensanti guardò a Beardsley come un pervertito, trascurando, o non considerando per nulla, la grandezza della sua opera artistica. Accusato dei più foschi vizi, egli fu semplicemente un geniale disegnatore con l’ossessione per i dettagli erotici: membri giganteschi portati come trofei, nani lascivi, nudi bizzarri che incipriano sederi, ragazze che si infilano le mani tra le cosce; una sessualità beffarda e classicheggiante del tutto priva di nefanda perversione.
LA FORMAZIONE
Aubrey Vincent Beardsley nacque a Brighton il 21 agosto 1872. Di salute cagionevole, fin da piccolo si dimostrò molto delicato tanto che la madre lo chiamava “la mia fragile porcellana di Dresda”.
Figlio di un padre perennemente disoccupato, fu allevato dalla madre, figura centrale della sua infanzia assieme alla sorella Mabel. Precoce talento del disegno, già a dieci anni si guadagnava i suoi primi soldi disegnando cartoncini segnaposti.
Nella sua biografia non c’è traccia di episodi torbidi o di deviazioni aberranti; non era neppure omosessuale, segno più evidente della corruzione per i rigidi inglesi. Egli fu solamente un enfant prodige, che riversò nella sua arte quelle fantasticherie a cui non poteva dare atto, data la sua precaria condizione fisica. Un innocuo voyeur, abile nello sfruttare i pettegolezzi per la sua notorietà.
A quindici anni fu costretto a lasciare gli studi per lavorare prima in posta e poi in una compagnia di assicurazioni: occupazioni avvilenti e noiose che, tempo dopo, rivivrà nel disegno “Le Dèbris d’un Poète”, dove un impiegato malinconico si avvizzisce tra mucchi di scartoffie polverose.

Nel 1892 gli venne proposto d’illustrare “La morte di Artù” (“Le Morte d’Arthur”) per l’editore Dent: non esitò nemmeno per un minuto; forte anche del lascito di una zia, abbandonò il suo triste lavoro assecondando le sue naturali inclinazioni artistiche. Un elegante medievalismo di stampo preraffaellita unito ad un giapponismo filtrato dalla lezione di Whistler furono i tratti distintivi di questa prima grande prova: uno stile originale che lo portò alla ribalta come l’illustratore più estroso del tempo.
IL SUCCESSO CONTROVERSO
Il suo genio fu ben presto riconosciuto e la sua carriera fu fulminante; in soli sei anni di attività ufficiale ci ha lasciato un corpus grafico tra i più preziosi ed importanti dell’art nouveau: dalle immagini bizzarre per i “Bon-Mots” di Sydney Smith e Richard Brinsley Sheridan alla collaborazione per prestigiose riviste come “The Yellow Book”, dall’illustrazione dei “Racconti” di Edgar Allan Poe a quella più controversa per la “Salomè” di Oscar Wilde.
Quest’ultimo sodalizio non fu certo dei più semplici, data la rivalità artistica che serpeggiava tra i due, entrambi prime donne e desiderosi di eccellere l’uno sull’altro, ma il risultato fu un vero e proprio capolavoro, un esemplare unico di omogeneità espressiva e di intenti.

Il legame di amicizia con Wilde fu però pagato a caro prezzo da Beardsley, che si vide trascinato nelle vicende giudiziarie dello scrittore. Quando Wilde venne arrestato nel 1895, dopo aver perso la famosa causa contro il marchese di Queensberry, i tabloid scrissero che uscendo di casa tenesse sotto braccio una copia del “The Yellow Book”, la rivista di cui nel frattempo Beardsley era diventato direttore artistico. Anche se il fatto non corrispondeva alla realtà, bastò per infangare la figura di entrambi che, nel torbido immaginario popolare, furono assunti ad emblema della perversione più bieca. I lavori di Beardsley furono così passati al setaccio alla ricerca dei particolari più sconcertanti: da ogni dove si elevavano parole di orrore e di sdegno.
Figlio delle castrante moralità vittoriana, Aubrey Beardsley liberò nella sua arte un eros intenso, spesso trattato in modo grottesco e dissacrante: bellezza e crudeltà, energia e caricatura, si mescolarono per affermare una visione fosca e ridicola della realtà. Il segno tagliente e compulsivo divenne il mezzo per tracciare un mondo esagerato, calcato e ricalcato, dove convivono angeli e demoni, amore e morte, santità e dannazione.
L’EPILOGO
E di santità e dannazione fu venata l’esistenza di Beardsley che poco prima di morire, il 16 marzo 1898, si convertì al cattolicesimo, lodando le vite dei santi e implorando Smithers, amico ed editore, di distruggere tutte le copie di “Lisistrata“, i brutti disegni ed i disegni osceni.
Per nostra fortuna l’amico non obbedì: l’oscenità è negli occhi di chi guarda e di disegni brutti, a mio parere, non ne esistono.

La sua grandezza non venne compresa dai contemporanei, inglesi pomposi propensi a lasciarsi andare a solitarie fantasie masturbatorie e poco inclini ad esternare una libido spensierata. Travolto da una condanna morale, che nulla aveva a che fare con il valore della sua produzione, così il “New York Times” lo liquidava a quindici giorni dalla sua morte: “pur ammettendo che Beardsley sia stato dotato di un’indubbia originalità, non possiamo concedergli niente di più.
Egli ha dato il suo meglio disegnando donne della più bassa specie e uomini satireschi. Beardsley non è riuscito a creare qualcosa che possa appartenere alla sfera della vera arte.
La sua influenza, che ha abbassato il gusto anziché elevarlo, è stata solo transitoria.
La sua opera è già quasi dimenticata … Il grottesco e il bizzarro, in quanto sono rappresentazione dell’innaturale e dell’anormale, non hanno la capacità di sopravvivere … Le nuove generazioni si chiederanno perché ci sia stato un pur breve interesse per Beardsley.
E’ stata una moda passeggera, un piccolo segno di decadenza e niente più. La nostra pietà può andare, se mai, alle lunghe sofferenze dell’uomo, e il nostro cordoglio a una persona malata nel fisico e nella mente, come le sue opere stanno a dimostrare.”