IN UNA FIRENZE ORAMAI DEPAUPERATA DAL TURISMO DI MASSA, ESISTE UN CAPOLAVORO NOTO A POCHI FINI INTENDITORI: LA DEPOSIZIONE DEL PONTORMO NELLA CHIESA DI SANTA FELICITA.
“Quando, nelle prime ore di una mattina di alcuni anni fa, entrai nella chiesa di Santa Felicita a Firenze, non sapevo di muovere il primo passo in una direzione che da allora ha invece impegnato ogni mio momento libero. Era un giorno d’autunno e pensavo – mi sembra di rivivere quel momento – che in una giornata così bella mi sarebbe stato possibile vedere una pala d’altare che invano avevo spesso cercato di decifrare nell’oscurità della cappella Capponi. Non mi ingannavo. La luce che irrompeva dalle finestre più alte della navata cadeva anche su quell’angolo così oscuro: e in quel fuggevole splendore vidi veramente per la prima volta la Deposizione del Pontormo. Fu il momento di una rivelazione inattesa.” (Frederick Mortimer Clapp, “Jacopo Carracci da Pontormo”, 1916)
SANTA FELICITA, LA STORIA
Nel cuore di Firenze, tra Ponte Vecchio e Palazzo Pitti, sorge sulla piazzetta omonima la chiesa di Santa Felicita. Un luogo trascurato dallo sguardo affrettato del turista, ma che nasconde dei tesori straordinari.
La facciata della chiesa fa tutt’uno con il portico che sorregge il Corridoio Vasariano, da dove i Medici assistevano alle funzioni religiose. Dal 1565, quando i Medici lasciarono Palazzo Vecchio per trasferirsi nell’ampliato e ristrutturato Palazzo Pitti, Santa Felicita divenne la chiesa di corte.
In realtà la sua storia è ben più longeva, essendo uno dei luoghi di culto più antichi della città, risalendo addirittura all’epoca romana. Intitolata ad una martire del cristianesimo primitivo, nel corso del tempo è stata basilica cimiteriale, chiesa per l’attiguo convento di monache benedettine, chiesa prima e parrocchia poi della corte granducale.
Rimaneggiata nel corso del tempo, fu completamente ristrutturata nel 1735 da Ferdinando Ruggieri, architetto di punta del barocco fiorentino. Furono risparmiate dai lavori di rifacimento solo le cappelle Barbadori-Capponi e Carnigiani, in controfacciata, ed il coro seicentesco.
All’interno la chiesa si presenta in un’unica navata, scandita da alte e scanalate lesene tra le quali si aprono le cappelle. Percorrendo la navata verso l’uscita, abbiate l’accortezza di volgere lo sguardo verso l’alto: qui noterete la finestra che si apre dal Corridoio Vasariano, attraverso la quale i granduchi potevano assistere alle funzioni religiose.
LA CAPPELLA BARBADORI-CAPPONI IN SANTA FELICITA
Attorno al 1420 Bartolomeo Barbadori commissionò a Filippo Brunelleschi la costruzione della cappella di famiglia, nella chiesa di Santa Felicita. In seguito alla distruzione della cappella Ridolfi In San Jacopo Sopr’Arno, questa è la più antica opera del genere edificata dal Brunelleschi giunta fino a noi.
Nel 1487 la cappella fu ceduta ad Antonio Paganelli per poi passare, dal 22 maggio 1525, alla famiglia Capponi. Fu Lodovico Capponi seniore, banchiere e mecenate, ad acquistare la cappella. Egli era da poco tornato da Roma, dove aveva lavorato per il banco Martelli e ne aveva sposato una componente, e desiderava preparare un luogo degno per la sua sepoltura e per quella della sua famiglia.
Il Capponi mutò la dedicazione della cappella, dall’Annunciazione alla Pietà, e la fece ridecorare da Jacopo Carucci, noto come Pontormo, coadiuvato da un giovane Agnolo Bronzino. A quell’epoca risale anche la vetrata di Guillaume de Marcillat, pittore e maestro vetraio francese, tra i collaboratori di Raffaello nelle Stanze Vaticane.
LA DEPOSIZIONE DEL PONTORMO, ANALISI DELL’OPERA
Opera principe del ciclo di decorazioni della cappella Barbadori-Capponi nella chiesa di Santa Felicita è la “Deposizione” del Pontormo.
Il dipinto, noto come una deposizione, affronta in realtà il tema del trasporto di Cristo al sepolcro. Nella scena, infatti, è assente la croce. Gesù è sostenuto da due giovani dolenti, in secondo piano la Madonna, attorniata dalle pie donne, è colta in un momento di grave sofferenza. Secondo la tradizione, Pontormo si sarebbe ritratto nell’angolo superiore destro della tavola, mentre guarda lo spettatore.
Eseguita tra il 1526 ed il 1528, la tavola costituisce uno dei vertici del manierismo italiano: fantastica nell’irreale gamma cromatica, magica nella nitidezza della luce, straordinaria nel liquefarsi delle figure in uno spazio inesistente, incredibile nelle vesti che si sovrappongono delicatamente sui corpi dei personaggi senza soluzione di continuità, sensibilissima nella struggente mestizia dei volti armonizzata dal lento legame delle linee. Essa costituisce un unicum nel percorso dell’artista, ma anche all’interno degli schemi narrativi fino ad allora in uso.
“… la condusse senz’ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che a pena si conosce il lume dal mezzo et il mezzo da gli scuri. In questa tavola è il Cristo morto, deposto di croce, il quale è portato alla sepoltura: èvvi la Nostra Donna che si vien meno e l’altre Marie fatte con modo tanto diverso dalle prime, che si vede apertamente che quel cervello andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare, non si contentando e non si fermando in alcuno. Insomma il componimento di questa tavola è diverso affatto dalle figure delle volte, e simile il colorito.” (Giorgio Vasari, “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti”, 1550)
Oltre alla novità compositiva, ciò che colpisce in questa rappresentazione sono i colori utilizzati, colori acidi stesi senza ombreggiature. Pontormo, come si credeva fino a pochi anni fa, non dipinse la “Deposizione” ad olio, ma usò invece della tempera a uovo, ossia impastò i pigmenti e le polveri con le uova fresche: cromie rivoluzionarie, realizzate con grandissima perizia, che hanno consacrato la “Deposizione” come uno dei più grandi capolavori della pittura del Cinquecento.
“Per la sua tradizione di cultura e la sua raffinatezza di colorista spesso la realtà più comune tra le mani di Pontormo diventa agevole e piena di scioltezza che è giusto dire signorile; ma se questo avviene senza che tale realtà perda interesse in moduli convenzionale, non torna a danno né della particolarità né della schiettezza delle cose raffigurate.” (Giusta Nicco-Fasola, “Pontormo o del Cinquecento”, 1947)