UNA SERA DEL 1896 A BRÜHL, CITTADINA DELLA RENANIA, UN BIMBO DI CINQUE ANNI SCAPPAVA DI CASA VESTITO SOLO DI UNA CAMICIA DA NOTTE. RIPORTATO INDIETRO, SI GIUSTIFICÒ DICENDO DI ESSERE GESÙ.

Quel bambino era Max Ernst, destinato a diventare uno dei più grandi pittori dell’inconscio.

Chiudi gli occhi così da vedere per prima cosa la tua pittura con gli occhi dello spirito, poi porta alla luce del giorno ciò che vedi durante le tue notti, onde il tuo operare si eserciti, a sua volta, su altre entità dall’esterno verso l’interno.” (Caspar David Friedrich)

 

LA VITA

 

Max Ernst, Marlene (Madre e figlio), 1940-1941
Max Ernst, Marlene (Madre e figlio), 1940-1941

Max Ernst nacque il 2 aprile 1891 a Brühl, un paese vicino a Colonia; venne iniziato alla pittura dal padre, pittore dilettante che insegnava ai sordomuti.

Si abituò ben presto ad una realtà fatta di silenzio, dove le parole erano sostituite da gesti evocativi.

In una versione surreale della sua nascita, Ernst narra di essere sbucato “fuori da un uovo che sua madre aveva nascosto in un nido d’aquila e che l’uccello aveva covato per sette anni“.

Un’immagine che fa riferimento alla sua ossessione per i volatili cominciata quando, all’età di quindici anni, il suo adorato pappagallo morì la stessa notte in cui nacque la sua sorellina; vittima di un’allucinazione egli si convinse che l’anima dell’animale si fosse trasferita nella neonata.

Da allora, nel suo vocabolario pittorico, vita e morte, uomo ed uccello, si sovrapposero in un dualismo inestricabile.

Nel 1908 si iscrisse all’università di Bonn dove studiò filosofia e psichiatria.

Meditò sull’opera di Sigmund Freud, approfondendo la conoscenza delle pulsioni inconsce che stanno alla base dell’agire umano. In tal senso egli si avvicinò all’arte degli alienati, affascinato com’era dalla loro potenza espressiva, capace di varcare i confini della logica comune.

Partecipò alla Prima Guerra Mondiale, rimanendo ferito per ben due volte nel campo di battaglia. Questa fu un’esperienza molto forte, che lo sprofondò negli orrori dell’essere umano per riportarlo a nuova nascita: “primo agosto 1914: Max Ernst muore per risorgere l’11 novembre 1918 nelle vesti di un giovane che sogna di ritrovare i miti del suo tempo. Di tanto in tanto chiede consigli a quell’aquila che aveva covato l’uovo della sua vita prenatale.”

 

L’OPERA

 

Max Ernst, L'elefante Celebes, 1921
Max Ernst, L’elefante Celebes, 1921

Sebbene sia ricordato come un pittore surrealista (fu uno dei fondatori del “Manifesto surrealista”), Max Ernst fu uno spirito libero: refrattario ad essere ingabbiato in qualsivoglia etichetta, dedicò la sua vita al cambiamento e alla sperimentazione.

Il suo è uno stile del tutto personale, in grado di sottoporre ogni aspetto del visibile ad un attento vaglio interpretativo, per mezzo di un lessico nuovo ed inconfondibile.

Dipingere non è per me un divertimento decorativo, oppure l’invenzione di plastica di una realtà ambigua; ogni volta la pittura deve essere invenzione, scoperta, rivelazione.” (Max Ernst)

I suoi quadri sono le pagine di una narrazione fantastica che derivano dall’osservazione del mondo in tutta la sua arcana varietà.

Simbolismi allucinatori e fisionomie sconvolte sono gli attori del suo palcoscenico, un palcoscenico in cui la vita interiore mette in scena se stessa senza artifizi od abbellimenti di sorta: un universo in declino che cela la sua catastrofe sotto una parvenza d’integrità.

Per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi, ma per comprenderla bisogna chiuderli.” (Max Ernst)

Max Ernst fu il più esemplare interprete di quello che Breton chiamava “l’occhio selvaggio”, ossia l’occhio del vero artista in grado di svelare la realtà oltre l’apparenza: un viaggio nei recessi più reconditi dell’ignoto non immediatamente chiari alla gente comune.

Ne risulta un’arte incomprensibile e spaesante, molte volte irritante per quel sottile senso di inquietudine che suscita nello spettatore.

 

LA TECNICA DEL FROTTAGE

 

Max Ernst, La città intera, 1934 - Frottage
Max Ernst, La città intera, 1934 – Frottage

Nella sua ricerca di accostamenti assurdi, imprevisti ed inusuali, Max Ernst fu senza dubbio l’interprete più qualificato dell’automatismo pittorico, tanto che riportò a nuova vita un’antica tecnica, il frottage, che gli permise rafforzare le sue capacità visionarie.

Questo procedimento, applicato mediante tecniche appropriate, escludendo cioè ogni influenza conscia della mente (ragione, gusto, morale) e riducendo al minimo il ruolo attivo di colui che si suol definire l’autore non è altro che l’equivalente di una sorta di scrittura automatica. Il ruolo dell’artista si riduce così al potenziamento delle allucinazioni della mente ed egli è semplicemente lo spettatore, colui che contempla il farsi stesso della propria opera.” (Max Ernst)

In sostanza il frottage si esplicava nello sfregamento, mediante una matita o un pastello, di un supporto posato sopra una superficie ruvida che si voleva far risaltare.

Una tecnica che evoca giochi dell’infanzia e che permise ad Ernst una infinita sperimentazione di mezzi e di materiali.

La pittura di Ernst è una continua contaminazione di stili e linguaggi che mantengono, tuttavia, la loro integrità plastica e formale: non è il sogno a generare l’immagine, ma l’immagine a generare il sogno, e la pittura ne è un mezzo attivo di conoscenza e interpretazione.

Come il ruolo del poeta, a partire dalla celebre Lettre du vayant, consiste nello scrivere sotto la dettatura di ciò che si pensa, che si articola in lui, così il ruolo del pittore è quello di delineare i contorni e di proiettare ciò che si vede in lui.” (Max Ernst)

Max Ernst si spense a Parigi il 1 aprile 1976.