ALBERTO BURRI FU UN POETA DELLA MATERIA, LIRICO INSTANCABILE DEI MATERIALI POVERI ELEVATI A FORMA DI SUPREMA BELLEZZA.

Amo Burri, perché non è solo il pittore maggiore d’oggi, ma è anche la principale causa d’invidia per me: è oggi il primo poeta.” (Giuseppe Ungaretti)

 

ALBERTO BURRI, LA FORMAZIONE

 

Alberto Burri nacque il 12 marzo 1915 a Città di Castello, piccolo comune in provincia di Perugia, primogenito di Pietro, commerciante di vini, e di Carolina Torregiani, insegnante di scuola elementare.

Dopo aver conseguito la maturità classica, s’iscrisse alla Facoltà di Medicina dell’Università di Perugia, dove si laureò nel 1940. Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio in Africa come ufficiale medico e qui, nel 1943, venne catturato dagli Alleati e trasferito in Texas, nel campo di concentramento di Hereford. Rifiutò di rinnegare l’esercito con il quale aveva combattuto, cosa che lo catalogò come “fascista irriducibile” ma della quale andò sempre orgoglioso: “dopo aver giurato fedeltà al Regio Esercito, figurati se potevo ripudiare la mia idea. Io non sono fascista, ma non ripudio nulla del mio passato.”

Fu in questo periodo che Burri cominciò a dipingere, soprattutto acquerelli, sotto la guida del capitano Gambetti di Genova, pittore professionista prima della guerra. L’arte fu dunque una tarda epifania, una sorta di balsamo per lenire le lunghe e difficili giornate della prigionia.

 

Alberto Burri, SZ1, 1949
Alberto Burri, SZ1, 1949. (Olio, sacco su tela)

 

Tornato in Italia, molto dopo la fine delle ostilità, giunse a Napoli il 27 febbraio 1946. Visse per un breve periodo a Città di Castello, prima di trasferirsi a Roma, avendo oramai scelto di dedicarsi completamente alla pittura. In un paese lacerato e travolto dagli orrori della guerra, egli si immerse totalmente nella propria opera, cercando nel processo creativo il senso più profondo della realtà. Fin da subito le sue sperimentazioni si connotarono per un uso astratto del linguaggio: si applicò al fare più che al rappresentare, non concedendo nulla alla figurazione di tipo tradizionale.

Parlatemi di tutto, preferibilmente di calcio, caccia, e donne, ma per carità non parlatemi d’arte e di politica. E neppure di religione.” (Alberto Burri)

 

ALBERTO BURRI, L’ARTE DELLA MATERIA

 

L’approccio alla materia come soggetto principale della sua arte fu graduale e meditato; esso prese le mosse dalla stessa materia pittorica e dall’esigenza di attribuirle una consistenza più corposa, densa e grumosa. Burri sentiva di dover intensificare il rapporto con il coagulo pittorico, instaurando con questo una sorta di confronto fisico.

Non avevo scelta, non sapendo dipingere non mi restava che diventare un artista astratto.” (Alberto Burri)

 

Alberto Burri, Bianco Nero, 1952
Alberto Burri, Bianco Nero, 1952. (Olio, acrilico e vinavil su tela)

 

Il 1950 fu un anno di grandi sperimentazioni per Burri: il materiale fluido e spalmabile venne sostituito od accostato ad un materiale oggettuale e non plasmabile. L’incastro tra elementi pittorici ed inserti materici si realizzò per incrostazione: movimenti inestricabili di segni e di forme, accumulati in complessi grovigli labirintici.

Vennero così alla luce le “Muffe”, sfruttando le efflorescenze prodotte dalla pietra pomice combinata alla tradizionale pittura ad olio, il primo “Gobbo”, dal tipico rigonfiamento ottenuto mediante rami di legno sistemati nel retro della tela, ed il primo “Sacco”, realizzato interamente in juta rattoppata e ricucita.

 

ALBERTO BURRI, I SACCHI

 

I “Sacchi” caratterizzano Burri come lo fanno le “Bottiglie” per Morandi e i “Tagli” per Fontana. Una sorta di marchio identificativo, e a volte riduttivo, che lo ha reso universalmente celebre.

Durante la prigionia in Texas egli venne a contatto con la cultura americana e vide per la prima volta camion di sacchi di juta, colmi di farina o di grano, con impresse delle grandi scritte in nero che indicavano la destinazione degli aiuti previsti dal piano Marshall. Questi sacchi, reminiscenze di giorni dilaniati dall’odio e tormentati dalla miseria, furono poi ricuciti ed elevati ad opera d’arte. Il rammendo raffazzonato di una guerra nella quale fu costretto ad intervenire.

Un paio di calzini non sono meno adatti a fare un dipinto di legno, chiodi, trementina, olio e stoffa.” (Robert Rauschenberg)

Al loro apparire i “Sacchi” crearono un grande sconcerto. Negli anni Cinquanta in Europa e nel resto del mondo, non vi era nulla di paragonabile al lavoro di Burri per radicalità d’innovazione linguistica, considerato che fu anche precorritore degli americani che formeranno i movimenti del New Dada e della Pop Art, artisti che stimolò ed influenzò.

 

Alberto Burri, Sacco nero e rosso, 1955
Alberto Burri, Sacco nero e rosso, 1955. (Juta, filo e colore acrilico-vinilico su tela nera)

 

Ma l’Italia, come spesso accade, si rivelò incapace di cogliere pienamente la grandezza di Burri che suscitò, addirittura, una querelle parlamentare. Quando nel 1959 la Galleria d’Arte Moderna di Roma acquistò il “Grande Sacco”, il leader comunista Umberto Terracini presentò un’interrogazione parlamentare in cui si chiedevano delucidazioni circa l’importo pagato per quella “vecchia sporca e sdrucita tela da imballaggio che, sotto il titolo Sacco Grande è stata messa in cornice da tale Alberto Burri.”

E ancora nel 1961, quando Burri tenne una personale alla Galleria Medusa di Roma, venne denunciato per “avere esposto stracci sporchi e altro materiale anti-igienico in una galleria aperta al pubblico”. Due giorni prima della chiusura della mostra si presentò addirittura un funzionario dell’Ufficio Igiene, per notificare al direttore dalla Galleria la denuncia sporta contro l’artista per “scarsa salubrità.”

Certo a quell’epoca il pubblico borghese faticava a comprendere la grandezza di Burri, ma la critica più attenta era in grado di cogliere ed apprezzare la sua rivoluzionaria grammatica espressiva.

Si prefigura in Burri la severa penitenzialità dei medievali umbri: Iacopone, i francescani, sacchi che indossano i frati, le umide tenebrose ombre che si annidano tra i conventuali refettori. Le salnitriche esumanze dei muri assisani sono la psicologia, genetica, materica matrice dell’umbro pittore.” (Gastone Biggi)

 

ALBERTO BURRI, I CRETTI

 

La controversa notorietà raggiunta con i “Sacchi” non arrestò il genio inventivo di Burri, il quale proseguì a cimentarsi sui materiali, arricchendoli di ulteriori valori formali. Materiali edili e tessuti plastici presero il posto di materiali organici come il legno, il ferro e la carta, mentre l’aggiunta del fuoco vivo aggiunse increspature atte a corrodere e deformare. Il fuoco anima la materia di un significato attivo: un astratto teatro della violenza, produttore d’inferni deteriorati.

Un sottile filo rosso lega tutta l’opera di Burri, ossia il concetto di consunzione che raggiunse la sua più completa manifestazione nella serie dei “Cretti”. Cominciati a partire dai primi anni Settanta, i “Cretti” si presentano come superfici quadrate o rettangolari, spesse, di colore bianco o nero, su cui si dipana un fitto intrico di screpolature. L’aspetto assomiglia molto a quello dei terreni argillosi, crepati dopo lunghi periodi di siccità.

Per ottenere questo effetto egli impiegò un impasto di caolino, terre, colla vinilica e pigmenti bianchi o neri. Tale miscela veniva poi depositata su un supporto di cellotex e poi sottoposto ad un controllato processo di essicazione. Attraverso la crepatura superficiale dei “Cretti” Burri evocò l’idea del trascorrere del tempo e l’eterno confronto tra vitalità e disgregazione, affidando alla tramatura della materia l’efficacia espressiva dell’opera.

Con questi lavori egli toccò le vette della compostezza formale, riallacciandosi all’equilibrio compositivo dei grandi maestri del Rinascimento, primo fra tutti Piero della Francesca.

 

Alberto Burri, Cretto, 1975
Alberto Burri, Cretto, 1975. (Acrovinilico su cellotex)

 

Alla fine degli anni Settanta i “Cretti” assunsero la dimensione di vere e proprie sculture che occuparono le corti, gli atri o intere sale dei musei, come il “Grande Cretto Nero”, realizzato in ceramica nel 1978, che si dipana su di una lunga parete del Museo napoletano di Capodimonte.

Negli anni Ottanta la monumentalità di queste creazioni si fece sempre più consistente, tanto da invadere il paesaggio naturale. Con il “Grande Cretto di Gibellina”, Burri ricoprì le macerie del paese siciliano, raso al suolo da un terremoto nel 1968, con una gettata di cemento di oltre 80.000 metri quadrati, suddivisa in 122 blocchi irregolari da crepe ampie come vicoli urbani. Il gigantesco “Gretto” si tramuta in un’opera di Land Art, in bilico tra natura ed artificio. Una sorta di epifania geologica in grado di restituirci la memoria della perduta Gibellina.

Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi, subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era a quasi venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei cos: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.” (Alberto Burri)

 

ALBERTO BURRI, L’EREDITÀ

 

Alberto Burri si spense a Nizza il 13 febbraio 1995, dove si era trasferito con l’acuirsi dei suoi problemi fisici dovuti all’asma. Lasciò la moglie Minsa Craig, ballerina e coreografa americana, che gli sopravvisse di otto anni.

Non si celebrò alcun funerale. Alberto Burri, uno dei più grandi artisti del Novecento, se ne andò così, senza troppo clamore, lontano dai riflettori che aveva rifuggito anche in vita. Aveva appena terminato una lunga registrazione autobiografica con Stefano Zorzi, che verrà pubblicata nel 1995 con il titolo “Parola di Burri”. Un documento unico per la conoscenza di un’artista che ha sempre rifiutato interviste, celebrazioni, premi e riconoscimenti.

Per me parlano le mie opere.” (Alberto Burri)

 

Alberto Burri, Nero e oro, 1992
Alberto Burri, Nero e oro, 1992. (Cellotex, oro in foglia, vinavil, acrilico su tela)

 

Per volontà dello stesso Burri nel 1978, a Città di Castello, nacque la Fondazione Palazzo Albizzini “Collezione Burri”, con l’intento di diffondere e preservare l’opera del maestro. Aperta al pubblico nel dicembre 1981, comprende circa centotrenta opere del 1948 al 1989 e, assieme all’altra sede espositiva degli Ex Seccatoi del Tabacco, inaugurata nel luglio del 1990 che accoglie centoventotto lavori dal 1970 al 1993, costituisce la collezione più ampia ed esaustiva del maestro.

La pittura è libertà raggiunta, costantemente consolidata, difesa con prudenza così da trarne la forza per dipingere di più.” (Alberto Burri)