FIGURA DI RILIEVO DELLA MITOLOGIA GRECA, NARCISO È STATO FONTE D’ISPIRAZIONE PER NUMEROSI ARTISTI.

La sua vicenda dolorosa è profondamente legata al concetto di creazione: l’immagine di Narciso permea di sè il significato stesso di arte come rappresentazione.

Noi pensatori cerchiamo di avvicinarci a Dio staccando il mondo da lui. Tu ti avvicini a lui amando e ricreando la sua creazione. Sono entrambe opere umane inadeguate, ma l’arte è più innocente.” (Hermann Hesse, da “Narciso e Boccadoro”, 1930)

 

NARCISO, IL MITO

 

Esistono diverse versioni del mito di Narciso, ma la più nota è quella narrata da Ovidio ne “Le Metamorfosi” (2-8 d.C.). Secondo il poeta romano, Narciso sarebbe nato dalla violenza perpetrata dal dio fluviale Cefiso sulla ninfa Lirìope.

La madre preoccupata per il destino del figlio, bambino di straordinaria bellezza, consultò l’indovino Tiresia che gli predisse vita lunghissima a patto che “non si guardasse mai”.

Crescendo Narciso, divenne l’oggetto dei desideri di uomini e donne ma, tale era la sua superbia, che rifiutava qualsiasi profferta amorosa: viveva tranquillo e spensierato, scorrazzando nei boschi e andando a caccia di cervi, fino a che non incontrò la ninfa Eco.

Malamente respinta dal bel Narciso, Eco invocò gli dei per avere giustizia: “che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!” Nemesi, la dea della vendetta, ascoltò le preghiere della fanciulla e spinse lo sprezzante Narciso a bere presso una sorgente sull’Elicona, il monte sacro alle Muse.

Fu così che Narciso vide per la prima volta il suo viso riflesso nello specchio dell’acqua e se ne innamorò. Non consapevole del fatto che quella che vedeva era la sua immagine, si strusse talmente di passione per quel simulacro che non riusciva ad afferrare, fino a morirne.

Quando le Naiadi e le Driadi andarono a prendere il suo corpo per collocarlo sulla pira funebre trovarono al suo posto un fiore giallo nel mezzo circondato da petali bianchi, il narciso appunto.

 

John William Waterhouse, Narciso ed Eco, dettaglio, 1903
John William Waterhouse, Narciso ed Eco, dettaglio, 1903

 

Io sono io! L’ho capito, l’immagine mia non m’inganna più!
Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma!
Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare?
Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente.
Oh potessi staccarmi dal mio corpo!”

(Ovidio da “Le Metamorfosi”, libro VI)

 

NARCISO, INTERPRETAZIONE E SIGNIFICATO DEL MITO

 

Dall’antichità il mito entrò a far parte della storia dell’Occidente con significati e interpretazioni diverse.

Durante il Medioevo la vicenda di Narciso venne letta come un monito morale: la condanna della vanitas che conduce a perdizione.

Accanto a questa, esisteva una visione neoplatonica più sofisticata che accostava il significato di vanità, ammirazione di sé stessi, a quello di nosce te ipsum (conosci te stesso).

Nel Rinascimento colto e sincretico l’affermazione di Sant’Agostino, secondo la quale Dio è dentro di noi, venne interpretata in chiave umanistica: l’uomo sapiente, imitando Dio che è flexus in se ipsum, conosce se stesso guardandosi dentro.

 

NARCISO COME ALTER EGO DELL’ARTE

 

Lo specchiarsi di Narciso nelle acque dello stagno è perfetta metafora dell’arte che si misura costantemente con il suo doppio, ossia la natura.

Nel suo trattato “De pictura” (1435), Leon Battista Alberti si spinse fino a collocare le origini della pittura nel mito di Narciso, derivando quest’arte dall’amore per il bello e dalla vocazione ad abbracciare un’immagine uguale non solo nell’apparenza.

Perciò usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già ove sia la pittura fiore d’ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene in proposito.

Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie del fonte?” (Leon Battista Alberti)

 

Nicolas-Bernard Lépicié, Narciso, 1771
Nicolas-Bernard Lépicié, Narciso, 1771

 

Una personalità tragica viene posta all’origine della pittura, incapace di colmare quelle distanze che la separano dalla mimesi di un altro sé.

La malattia di Narciso è dunque quella di ogni artista e, più in generale di ogni uomo, che sperimenta la complessità incontrollabile della vita e, diffidando di certezze troppo agevoli, rifiuta le falsificatorie e consolanti strategie di riproduzione del mondo contradditorio che lo ospita: la coscienza dolorosa della lotta tra arte e reale, tra l’idea e il suo simulacro.

Un baratro che non pare colmabile. All’artista creatore è affidato un linguaggio pari agli dei per dignità; il prezzo da pagare è un male incurabile: il tormento del vedere.

 

Salvador Dalí, Metamorfosi di Narciso, 1936-1937
Salvador Dalí, Metamorfosi di Narciso, 1936-1937