VENEZIA, BASTA SOLO LA PAROLA PER EVOCARE UN SOGNO. NOTA IN TUTTO IL MONDO COME CITTÀ D’ARTE E DI CULTURA, VENEZIA È ANCHE LA PATRIA D’ELEZIONE DI UNO SPORT MOLTO DIFFUSO, IL TENNIS.
“Venezia! Questa parola da sola sembra far scoppiare nell’anima un’esaltazione, eccita tutto ciò che vi è di poetico in noi, scatena tutte le nostre facoltà di ammirazione. E quando arriviamo in questa città inusitata, la contempliamo immancabilmente con occhi prevenuti e rapiti, la guardiamo coi nostri sogni.” (Guy de Mauppasant)
LA MODA DEL TENNIS
Nel 1555 a Venezia fu dato alle stampe il “Trattato del giuoco della palla”, scritto dall’abate Antonio Scaino, ritenuto uno dei primi esempi di manualistica sportiva. Il gioco descritto dallo Scaino si praticava con una palla, delle racchette ed una rete. Era il jeu de paume o pallacorda, l’antenato del nostro tennis, passatempo molto diffuso tra i ceti sociali più elevati.
Lo spunto per la composizione del trattato fu “un puntiglio avvenuto giocando”, ossia una controversia sorta durante una partita di pallacorda disputata tra Scaino ed il principe Alfonso II d’Este, erede al trono ducale di Ferrara. La necessità di codificare delle norme ben precise divenne così un’utile occasione per indagare le implicazioni sociali, culturali e politiche alla base di questo sport, da considerarsi, secondo l’autore, non come un semplice “intertenimento”, ma come metafora di una contesa più nobile che è quella della vita.
Scaino, infatti, non solo fornì delle regole puntuali, ma ne diede delle interpretazioni educative: il gioco della racchetta esaltava numerose qualità cavalleresche e si presentava come un’esemplare metafora della strategia militare. Era il tempo di massimo splendore di questa disciplina, ritenuta il “roi des jeux et jeu des rois” (re dei giochi e gioco del re), capace di mantenere il corpo in forma e di affinare l’ingegno. Non vi era corte europea che non avesse uno spazio dedicato alla pallacorda: dai Tudor agli Asburgo, dai Medici ai Gonzaga, dagli Sforza ai Montefeltro, tutti impazzivano per l’antico tennis.
Anche Venezia non si sottrasse a questa moda ma, data la sua natura di Repubblica, estese il gioco della palla a tutte le classi sociali, ognuna delle quali aveva il suo luogo di ritrovo. Il ceto civile si radunava in Calle dei Botteri, situata presso le rive dei grandi sbarchi, riva de l’Ogio e riva del Vin, i patrizi “prima di metter veste”, ossia che non avevano ancora compiuto i venticinque anni, si trovavano nella contrada del Biri verso le Fondamente Nove, mentre la “gente ordinaria” preferiva la Calle Lunga, posta tra la parrocchia di San Felice e quella di Santa Caterina.
Nella toponomastica veneziana rimane memoria di quest’antica usanza; in contrada San Felice, una calle, un ponte, un rio e un sottoportico, prendono il nome proprio dal gioco della racchetta.
IL TENNIS A VENEZIA, IL DIPINTO
Presso la Fondazione Querini Stampalia di Venezia, è custodito un dipinto di Gabriele Bella intitolato Il gioco della racchetta. Databile attorno al 1770, esso raffigura un ambiente chiuso nel quale si sta disputando una partita di pallacorda. L’opera ci riporta indietro nel tempo, rendendoci protagonisti di una combattuta gara sportiva.
Il campo, suddiviso da una rete, è circondato da un pubblico attento e partecipe. Non essendoci altro che un parapetto a dividere gli spettatori dai giocatori, essi erano in grado di udire ogni suono ed esclamazione dei “racchettieri”, di valutare ogni tiro messo a segno, riuscendo così ad influenzare, con commenti ed incitamenti, l’andamento del gioco. C’è da dire che l’acceso interesse era suscitato anche dal denaro, poiché era consueto che i giocatori, così come gli avventori, facessero delle scommesse.
In effetti spesso nelle sale di pallacorda si giocava anche a carte e a dadi, e questo fece guadagnare allo sport una cattiva fama presso i moralisti. Per i proprietari delle sale si trattava di un affare assai redditizio: non solo guadagnavano attraverso l’affitto dei campi, delle racchette e delle palline, ma anche dal cibo e dalle bevande che mettevano a disposizione per i banchetti che spesso si tenevano dopo le partite.
Se all’origine i campi da gioco erano all’aperto, con il passare del tempo si cercarono superfici delimitate da muri, in modo da sfruttare il rimbalzo della palla. Questi campi coperti, di dimensioni variabili – potevano essere lunghi anche trenta metri – si diffusero un po’ in tutte le città.
Nella città di Venezia il primo terreno da gioco al chiuso risale al 1595; esso si trovava a Cannaregio, nelle Fondamente Nuove, dietro al monastero di Santa Caterina, ed era di proprietà delle “reverende Madri”. Circa vent’anni dopo, nella stessa zona, venne aperto un altro campo in una struttura un tempo adibita a teatro. Questa seconda corte fu gestita dalla star del tennis veneziano, Pasquale Cicogna. Stando a quanto riporta un manoscritto conservato alla Biblioteca Marciana, “sul campo di Pasquale, giocavano Ambasciatori e Nunzi pontifici, Carlo VI e Carlo VII, il Re di Polonia, il Re di Danimarca, gli elettori di Magonza e di Baviera e il giovanetto Federico Augusto di Sassonia, il più bravo di tutti, e anche il più generoso perché, ogni giorno, dava quattro ducati di mancia al custode del campo … […]”
L’opera di Gabriele Bella costituisce dunque una preziosa testimonianza della vita veneziana del tempo, ma rappresenta anche un utile documento per ricostruire la storia di uno sport tanto affascinante quanto antico.
“Quando opporremo a queste palle le nostre racchette ci giocheremo in Francia, a Dio piacendo, una tale partita che la corona di suo padre finirà fuori gioco. Ditegli che ha scelto di cimentarsi con un avversario che metterà sottosopra tutti i campi di Francia.” (William Shakespeare, Enrico V, atto I, scena II, 1598-1599)