MAI ARTISTA FU PIÙ PRESENTE DI ANDY WARHOL; OSSESSIONATO DALL’IDEA DI ESSERE FAMOSO, SI SERVÌ DELL’ARMA DELLA COMUNICAZIONE PER RAGGIUNGERE I SUOI SCOPI.
“Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti.” (Andy Warhol)
ANDY WARHOL, L’UOMO E L’ARTISTA
Andy Warhol fu un grande innovatore, protagonista del suo tempo egli seppe guardare avanti, anticipando con lungimiranza le mode e gli eventi. Fu uno dei primi a capire l’importanza dei mezzi di comunicazione e a servirsene per promuovere la sua persona e la sua opera: un influencer ante litteram, in grado di creare attorno a sé una fitta rete di relazioni.
Siamo sempre stati abituati a vederlo, perché farsi vedere per lui era parte integrante del suo successo, ma chi era veramente Andy Warhol? Sotto la veste mondana e salottiera dell’Andy pubblico, si celava un Andy diverso, un uomo timido ed introverso, quasi sgomento di fronte al suo volto ufficiale: “a volte è così bello tornare a casa e togliersi il costume da Andy.”
“Preferirei rimanere un mistero. Non mi piace parlare del mio passato, ogni volta lo racconto in maniera diversa. Non per crearmi un’immagine, ma proprio perché dimentico quel che ho detto la volta precedente. In effetti, non penso di avere un’immagine.” (Andy Warhol)
ANDY PRIMA DI ANDY, VI PRESENTO ANDREW WARHOLA
Andrew Warhola nacque a Pittsburgh, il 6 ottobre 1928, figlio di Ondrej Varchola (cognome che venne anglicizzato in Warhola) e di Júlia Justína Zavacká, due immigrati slovacchi di etnia Rutena.
Terzo di tre fratelli, Andrew era quello più debole e malaticcio: all’età di otto anni contrasse la corea di Huntington, una malattia rara del sistema nervoso, che lo costrinse a letto per diversi mesi. Durante questo riposo forzato la madre, un’abile artista, gli diede le sue prime lezioni di disegno. Oltre a disegnare, il piccolo Andy amava passare il tempo guardando film e facendo fotografie.
Nel 1942, quando aveva solo quattordici anni, suo padre morì, lasciando dei risparmi per finanziare l’istruzione universitaria del figlio; ne aveva riconosciuto il talento e desiderava incoraggiarlo. Dopo la laurea, ottenuta nel 1949 al Carnegie Institute for Technology, si trasferì a New York per quella che sarà la sua seconda vita. Qui si diede un nuovo nome e cambiò volto, non riuscendo però a nascondere completamente quell’adolescente occhialuto e gracilino che ogni tanto tornava a farli visita.
“Mai farsi un’idea di Andy dal suo aspetto esteriore. L’osservatore incallito era in realtà un angelo che teneva nota delle nostre azioni. E il distacco di Andy – la distanza che aveva posto tra sé e il mondo – era soprattutto una questione d’arte e di innocenza. Non è forse un artista di solito costretto a sottarsi alle cose? Nelle sue inespugnabili innocenza e umiltà, Andy mi ha sempre colpito come uno yurodstvo, uno di quei santi sempliciotti che hanno abitato la letteratura russa e i villaggi slavi.” (John Richardson)
ANDY WARHOL. L’ARTE COME OGGETTO DI CONSUMO
Una delle grandi capacità di Warhol fu quella di saper intuire le tendenze, assecondando i segnali innovativi che fiutava attorno di sé: accadde agli inizi degli anni Sessanta con la Pop Art, movimento nato in Inghilterra molto tempo prima, e successe anche con il cinema underground, verso la metà dello stesso decennio.
Questa qualità lo portò immediatamente a comprendere come il senso più profondo dell’arte contemporanea risiedesse nel suo valore commerciale: non era importante ciò che si faceva, ma come lo si vendeva. La sua opera si liberava così da ogni implicazione ideologica, tipica dell’arte europea, assumendo una valenza antropologica tipicamente anglosassone del “fare attivo”.
Da questo momento in poi l’arte si configurò come il prodotto di un’arte globalizzata che si avvicinava sempre di più ad uno strumento finanziario.
Ponendosi al servizio della nuova società dei consumi, Andy Warhol esaltò sé stesso come la più compiuta fra le opere d’arte. Egli divenne l’immagine esemplare della sua opera.
“Ma io, sono coperto? Devo guardarmi allo specchio per trovare qualche traccia. Lo sguardo senza interesse. La grazia distratta… il languore annoiato, il pallore sprecato… il freak chic, lo stupore fondamentalmente passivo, la segreta conoscenza che ammalia… la gioia di cinz, i tropismi rivelatori, la maschera di gesso da folletto, lo sguardo un po’ slavo… l’ingenuità bambina, l’ingenuità al chewing-gum, il fascino che alligna nella disperazione, la trascuratezza narcisa, la perfetta diversità, l’inafferrabilità, l’ombrosa voyeuristica aura vagamente sinistra, la pallida e magra presenza di soffici parole, la pelle, le ossa… la pallida pelle d’albino. Incartapecorita. Rettile. Quasi blu… le ginocchia nodose. La mappa delle cicatrici. Le lunghe braccia ossute, così bianche da sembrare candeggiate. Le mani interessanti. Gli occhi a spillo. Le orecchie a banana… le labbra che tendono al grigio. Gli arruffati capelli bianco-argento, soffici e metallici. Le corde del collo in fuori intorno al grande pomo d’Adamo. C’è tutto. Nulla è andato perso. Io sono tutto ciò che dice il mio album” (Andy Warhol)
ANDY WARHOL, LA CONSACRAZIONE
A cinquantotto anni di età, il 22 febbraio 1987, Andy Warhol si spense improvvisamente. Con lui moriva l’uomo, ma non l’artista che, ad un anno dalla sua scomparsa, vide la sua consacrazione ufficiale.
Il 23 aprile 1988, circa seimila persone si assieparono nelle stanze di Sotheby’s a Manhattan, per accaparrarsi una sua icona. Vip, mercanti d’arte e amatori, si contesero a suon di migliaia di dollari i suoi lavori. Ogni pezzo superò di gran lunga le quotazioni iniziali: la collezione, stimata quindici milioni di dollari, ne fruttò più di venticinquemila.
Era l’apoteosi finale, l’epilogo trionfale di un uomo che aveva inteso le leggi del mercato, sfruttandole a proprio vantaggio.
“Per capire Andy bisogna pensare alla sua teoria del piedistallo e cioè che qualsiasi cosa, messa su un piedistallo, sembra arte.” (Stuart Pivar)