LA VICENDA DI DIANA E ATTEONE HA ISPIRATO LA FANTASIA DI NUMEROSI ARTISTI CHE SI CIMENTARONO SU QUESTO SOGGETTO, RICAVANDONE SEMPRE ORIGINALI E DIVERSE INTERPRETAZIONI.

Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina.” (Giordano Bruno)

 

IL MITO, UN RACCONTO LEGGENDARIO

 

Diana e Atteone sono i protagonisti di un episodio della mitologia classica. Ma che cosa intendiamo quando parliamo di mito? È utile soffermarci brevemente su questo argomento. Il termine mito deriva dal greco μύϑος (mythos), che significa parola, narrazione.

Per gli antichi greci il mito costituiva un racconto, originariamente orale, in grado di spiegare i misteri del mondo e capace di stabilire le relazioni esistenti tra la realtà divina e quella umana. Il mito era sostanzialmente un tentativo di dare delle risposte ai quesiti fondamentali dell’esistenza.

In realtà il mito, oltre la patina della graziosa favoletta, adombra dei significati molto più complessi che si innestano alle vicende politiche, sociali e religiose del suo tempo.

Chi è privo di un mito è un uomo che non ha radici.” (Carl Gustav Jung)

 

DIANA E ATTEONE, IL MITO

 

La storia di Diana e Atteone venne narrata da Ovidio nel terzo libro de “Le Metamorfosi”, rifacendosi esplicitamente al mito greco di Artemide e Atteone. In epoca imperiale, la dea romana Diana si era oramai sovrapposta, nell’immaginario collettivo, alla figura della greca Artemide.

Atteone era figlio di Aristeo e di Autone, allevato dal centauro Chirone che lo addestrò all’uso delle armi. Un giorno, durante una battuta di caccia, il giovane si perse con i suoi cani in un bosco sconosciuto. Cercando disperatamente la via d’uscita, giunse in una radura con una grotta che, al suo interno, custodiva un laghetto dall’acqua limpidissima, la fonte Parteia.

In questo luogo sacro Diana, la dea vergine, stava facendo il bagno nuda con le sue ninfe. Sorpresa da Atteone in questo momento di grande intimità, Diana si adirò a tal punto da gettargli dell’acqua in faccia, trasformandolo in un cervo. I suoi cani, non riconoscendolo, si avventarono su di lui e lo sbranarono: da cacciatore Atteone era diventato una preda.

 

Friedrich Cristoph Steinhammer, Diana e Atteone, 1615
Friedrich Cristoph Steinhammer, Diana e Atteone, 1615

 

Mentre diana si bagnava così alla sua solita fonte, ecco che il nipote di Cadmo, prima di riprendere la caccia, vagando a caso per quel bosco che non conosceva, arrivò in quel sacro recesso: qui lo condusse il destino. Appena entrò nella grotta irrorata dalla fonte, le ninfe, nude com’erano, alla vista di un uomo si percossero il petto e riempirono il bosco intero di urla incontrollate, poi corsero intorno a Diana per coprirla con i loro corpi; ma per la sua statura, la dea tutte le sovrastava di una testa. Quel colore purpureo che assumono le nubi se contro si riflette il sole, o quello che possiede l’aurora, quello apparve sul volto di Diana sorpresa senza veste.” (Ovidio, Le Metamorfosi, Libro III)

 

DIANA E ATTEONE, LE RAPPRESENTAZIONI E IL SIGNIFICATO

 

La vicenda di Diana e Atteone si prestò come un ottimo soggetto per la pittura, tralasciandone i risvolti più macabri, esso poteva configurarsi come una maliziosa scenetta cortese: il bosco segreto, la fonte sacra, le fanciulle nude, l’occhio indiscreto dell’uomo, erano tutti elementi adatti ad una sua rappresentazione.

Ma anche il mondo letterario non fu estraneo alla suggestione di questo mito: da Boccaccio che ne “La caccia di Diana” utilizzò la vicenda per celebrare alcune gentildonne napoletane, passando per il Petrarca che nel “Canzoniere” indossò gli abiti di Atteone per dimostrare il suo amore per Diana (alter ego di Laura), fino a Giordano Bruno che in “De gli eroici furori” si servì della narrazione ovidiana per elevare l’amore a metodo di conoscenza.

In pittura il mito si colorò di diverse valenze, a seconda dell’epoca e della sensibilità del singolo artista: dal semplice utilizzo dell’episodio in chiave erotica ad uno più complesso, che si spingeva a compiere una riflessione più profonda sulla condizione dell’uomo, costretto a soccombere alle forze del destino.

 

Felice Boselli, Diana e Atteone, 1707
Felice Boselli, Diana e Atteone, 1707

 

Vi fu chi si attardò sulla trasformazione di Atteone in cervo, oppure chi si concentrò sul momento del bagno, delizioso pretesto per un’esibizione di nudi femminili, tutti gli artisti, per lo più, furono attenti a trascurare il cruento epilogo della storia, quello della tragica morte di Atteone, certamente non indicato ad abbellire le dimore dei grandi signori.

Dovremo chiedere ai teologi se, fra tutte le teofanie che si sono prodotte nel tempo, ne esiste una più sconcertante di questa? Una divinità che si offre e al tempo stesso si sottrae agli uomini sotto le seducenti fattezze di una vergine prorompente e letale.” (Pierre Klossowski)

 

PARMIGIANINO, LA STUFETTA DI DIANA E ATTEONE

 

La più celebre e singolare traduzione pittorica  di Diana e Atteone la ritroviamo a Fontanellato, piccolo comune in provincia di Parma. Qui un giovane Parmigianino venne chiamato dal conte Galeazzo Sanvitale, per realizzare la decorazione di una saletta dell’avita rocca.

La stanza si trovava al pian terreno del fortilizio, in una posizione appartata, di forma rettangolare e completamente priva di finestre. Un luogo intimo e misterioso che ha fatto molto discutere sulla sua reale destinazione d’uso. Da alcuni è stata vista come un boudoir, o meglio una “stufetta (si chiamavano così nel Cinquecento le stanze da bagno), con cui ben si sposava il tema del bagno di Diana, per altri essa era legata agli interessi alchemici del conte, secondo la maggior parte doveva intendersi come una sorta di sacrario privato destinato alla commemorazione del figlio di Galeazzo e Paola Gonzaga, morto prematuramente. Comunque sia, l’intero ciclo dovette essere compiuto nella prima metà del 1524.

 

Parmigianino, decorazione per la rocca di Fontanellato, dettaglio, 1524
Parmigianino, decorazione per la rocca di Fontanellato, dettaglio, 1524

 

L’impianto dell’opera rappresenta un esplicito omaggio a Correggio e alla sua Camera della Badessa, che Parmigianino poté vedere poco prima che il convento fosse destinato alla clausura. In Parmigianino tutto però muta e sfuma in un’eleganza preziosa e sofisticata, sublimata nella piena luce di un meriggio.

La poesia ovidiana trova qui la sua traduzione più efficace ed esclusiva. La pergola fiorita di rose, in cui scherzano graziosi putti, si apre sulla volta in un occhio di cielo dove, come un gioiello, è incastonato uno specchio – una probabile allusione alla luna, simbolo di Diana – e che inserisce nelle vicende di Diana e Atteone, riportate nelle quattordici lunette sottostanti, un tocco lievemente inquietanti nel suo riflettere, deformandoli, spazio e figure.

Questa specie di presenza umana nelle cose: ecco che cos’è la mitologia per me. Quel che fa sì che io non consideri un sasso, una roccia, come cose morte. In fondo, quel che dipingo io è soprattutto questa mitologia.” (Joan Miró)

 

DIANA E ATTEONE NEL NOVECENTO

 

La vicenda di Diana e Atteone continuò a stimolare l’immaginario artistico fino al Settecento inoltrato per poi perdere vigore, sotto i colpi inferti da una pittura più attenta alla traduzione della vita contemporanea. Tuttavia il mito, seppure adombrato, non sparì del tutto, continuando ad esercitare la sua influenza culturale sotto forma di archetipo primordiale.

Furono in particolare un poeta ed una pittrice a dare nuovo vigore, nel Novecento, all’antico racconto ovidiano. Ezra Pound nei suoi “Cantos“, composti tra il 1915 ed il 1962, utilizzò il mito come utile strumento della comprensione del presente. Secondo il poeta statunitense solo attraverso quel patrimonio universale tramandatoci dagli antichi era possibile tracciare la storia degli uomini.

Atteone,/ In una valle folta di foglie/ La foresta rigetta il sole che abbaglia […]/ Né raggio, né scheggia di sole,/ né un disco di bagliore solare/ Percuote le acque scure,/ Né spruzza sulle ancelle, bianche, intorno a Diana./ Che fa di clarità l’aer tremare,/ arruffando loro chiome […]/ I molossi brancan Atteone,/ Cervo maculato silvano;/ Le trecce, grevi/ come fascio di grano, lampeggiano,/ I cani sbranano Atteone,/ Cervo maculato silvano.” (Ezra Pound, The Cantos)

 

Frida Kahlo, Il cervo ferito, 1946
Frida Kahlo, Il cervo ferito, 1946

 

Nel 1946 la rivoluzionaria artista messicana Frida Kahlo si identificò con Atteone, interpretando ne Il cervo ferito la parte del cacciatore divenuto preda: un cervo con il volto della pittrice ed il corpo trafitto da nove frecce. In questo caso il mito è un colto pretesto per esibire le sue personali sofferenze, elevate a simbolo della triste condizione umana.

Sono un piccolo cervo che vive nelle montagne. Poiché sono selvatico, non scendo a dissetarmi durante il giorno. Di notte, a poco a poco, vengo tra le tue braccia, amore mio.” (Frida Kahlo)